OGM

OGM: SI o NO?

Tutti ne parlano, ma in pochi hanno realmente le idee chiare sull’argomento: quello che appare evidente è che, tra i consumatori, nessuno li vuole. Per prendere una decisione in piena consapevolezza, si rende allora necessario capire esattamente di cosa si tratta e se i rischi siano o meno inferiori ai benefici.

Innanzitutto: cosa sono gli Ogm?
Gli Organismi Geneticamente Modificati sono degli organismi il cui corredo cromosomico è stato modificato, quasi sempre tramite l’introduzione di un gene estraneo, prelevato da un donatore appartenente a una qualsiasi specie vivente. Studiando il meccanismo d’azione dei virus, l’ingegneria genetica ha consentito la messa a punto di tecniche che permettono di identificare e isolare un gene in un determinato organismo e di inserirlo nel patrimonio genetico di un altro, anche molto distante dal punto di vista tassonomico (cioè della classificazione delle specie viventi). Per fare un esempio, nel codice genetico di una pianta può essere inserito un gene, appartenente a un altro organismo, che codifichi la resistenza agli erbicidi, in modo che anch'essa (e le generazioni successive, se questo nuovo gene non induce anche la sterilità) possieda tale caratteristica.
Tutto ciò è stato reso possibile dall’affinamento delle cosiddette “biotecnologie”. Con questo termine si intendono gli interventi operati dall’uomo sugli organismi viventi (batteri, muffe, lieviti, protozoi, alghe, cellule animali e vegetali) o su parti di essi (enzimi, antibiotici, tossine), tesi a sfruttare le loro peculiarità e caratteristiche intrinseche per modificarne la natura, ottenere nuovi prodotti, migliorare le caratteristiche di piante o animali, oppure per sviluppare dei microrganismi con compiti specifici (es. lotta integrata).

L’applicazione di tecniche di ingegneria genetica, o biotecnologie, non è, peraltro, di origine recente. Infatti, se le vediamo sotto quest’ottica, esse sono adottate da millenni: basta pensare ai lieviti utilizzati nel pane o nel vino per rendersi conto che l’uomo ha sempre cercato di utilizzare e modificare la natura a suo beneficio.
Dei semi di frumento con patrimonio genetico diploide (cioè con due serie di cromosomi) sono stati ritrovati in quella fascia del Mediterraneo nota come la “mezzaluna fertile” (odierna Turchia), dove circa 11.000 anni fa nacque l’agricoltura. Questo testimonia come già da allora si cercasse di migliorare la qualità dei vegetali attraverso delle manipolazioni. In seguito allevatori e agricoltori utilizzarono per secoli delle tecniche empiriche per migliorare la qualità e la produzione di campi e bestiame, fino a arrivare al 1800, quando Gregor Mendel mise a punto i suoi studi sulle caratteristiche genetiche e sull’ibridazione delle piante. La vera svolta si ebbe però nel 1953, quando Watson e Crick identificarono la struttura del DNA: da allora prese infatti il via l’ingegneria genetica propriamente detta. Con la possibilità di manipolare il DNA di un organismo il campo d’azione delle biotecnologie si amplia e nascono i diversi settori di applicazione delle biotecnologie: farmacologia e medicina, agricoltura, zootecnia e veterinaria, bioindustria, ambiente.

Dove si applicano le biotecnologie?
Le tecnologie d’intervento sul patrimonio genetico dei vegetali possono essere distinte in due categorie con ambiti di applicazione diversi: biotecnologie di processo e biotecnologie di prodotto (per migliorare la qualità del prodotto o le caratteristiche nutrizionali dell'alimento).
Le biotecnologie di processo hanno tre campi di applicazione:
•    Complementare: ossia modificare il DNA di una pianta per renderla tollerante a un diserbante;
•    Di sostituzione: le modifiche conferiscono alla pianta la resistenza verso gli attacchi parassitari, batterici, virali o fungini propri di quella specie;
•    Agronomico: I risultati perseguiti sono diversi: variare la biologia riproduttiva del vegetale, la sua forma, la velocità di crescita, resistenza agli stress ambientali, produzione di frutti privi di semi o fiori di colore diverso, solo per citare alcuni esempi.

Dall’impiego di queste tecniche scaturiscono ovviamente numerosi benefici, quali a esempio un incremento della resa per ettaro delle coltivazioni, un minor utilizzo di diserbanti e antiparassitari, maggiore automazione della raccolta (per via delle caratteristiche di forma e resistenza indotte dalla manipolazione, che rendono più adatti i frutti a questo tipo di raccolta). Inoltre, conferendo alla pianta maggior resistenza agli stress ambientali, la si rende di fatto adatta a essere coltivata in luoghi dove le condizioni ambientali l’avrebbero reso impossibile.
Per quanto riguarda le biotecnologie di prodotto, esse si possono applicare sostanzialmente in due ambiti, a seconda del tipo di obiettivi perseguito. Se si vuole migliorare la qualità del prodotto, si interverrà su caratteristiche quali la sua velocità di maturazione, il suo contenuto in amidi o grassi ecc.; se quello che interessa sono le qualità nutrizionali, si possono programmare dei frutti a aumentato tenore vitaminico, oppure a ridotta allergenicità e così via.
Di solito, però, la caratteristica più diffusa dei prodotti agricoli geneticamente modificati è la tolleranza ai diserbanti (77% del totale delle coltivazioni), seguita dall’auto-protezione dagli insetti (15%) e da una combinazione delle due (8%).
Un esempio per tutti: il mais. Questa pianta è soggetta all’attacco di un parassita, la piralide, che riesce a ridurre anche di un terzo la quantità del raccolto. Nel DNA del mais è allora stato inserito un gene estratto dal DNA di un batterio, il Bacillus turingensis, che produce delle proteine tossiche per la piralide. In questo modo, queste proteine sono prodotte anche dal mais, che così acquisisce resistenza nei confronti di questo parassita in tutte le sue parti, rendendo quindi superfluo l’utilizzo di antiparassitari.

OGM: sĺ o no?
Secondo i sostenitori degli Ogm, non esisterebbe una sostanziale differenza tra i prodotti che hanno subito delle manipolazioni genetiche e quelli ottenuti tramite le tradizionali tecniche di selezione impiegate in agricoltura e in zootecnia. La differenza starebbe solo nel grado di precisione: con l’incrocio, infatti, un ruolo fondamentale è attribuibile al caso, mentre con l’ingegneria genetica il risultato della manipolazione sarebbe conosciuto con certezza. In entrambi i casi, comunque, viene introdotta una variazione nel genoma della specie. Da questo punto di vista, le biotecnologie sarebbero quindi la naturale evoluzione delle tecniche di ibridazione attuate da anni.
La differenza tra le due è però sostanziale: le pratiche tradizionali hanno sempre trovato un limite naturale nel confine esistente tra le specie; con l’ingegneria genetica questo limite non esiste più: è possibile, a esempio, inserire il gene della bioluminescenza della lucciola nel tabacco, e ottenere una pianta che brilla al buio. Dunque, le biotecnologie infrangono i limiti naturali esistenti tra le specie, anzi, rendono obsoleto il concetto stesso di specie, abbattendo persino il confine tra regno animale e vegetale.
Per quanto concerne la valutazione dei rischi, non esiste una previsione del pericolo derivante dal rilascio nell’ambiente di piante e animali “ingegnerizzati”. Infatti, le interazioni possibili tra il gene inserito e il DNA ospite non sono né prevedibili né controllabili, così come non è possibile fare una previsione a lungo termine dell’effetto che l’immissione di questi organismi avrà sull’ecosistema. Un rischio concreto per l’ambiente è costituito dunque da un nuovo tipo di inquinamento: quello genetico (o bio-inquinamento). Infatti, attraverso il polline, i geni delle piante trattate possono diffondersi nelle coltivazioni tradizionali, o raggiungere i parenti selvatici e le erbacce. Inoltre le specie geneticamente manipolate sono più resistenti, quindi potrebbe avvenire una sorta di selezione naturale che porterebbe alla scomparsa, nel lungo periodo, delle specie tradizionali. Un altro punto fondamentale è che, creando delle piante che resistono agli erbicidi, se ne incentiverebbe l’uso, aumentando, da un lato, l’inquinamento chimico e inducendo, dall’altro, la resistenza in ceppi di piante infestanti.

Cosa dice l'ambientalista indiana Vandana Shiva

La mappa del transgenico è fatta di terre in buona parte conquistate dalle multinazionali dell’ingegneria genetica: negli Stati Uniti, primo produttore mondiale, il 93% delle coltivazioni di soia, l’80% del cotone, il 62% della colza e il 95% della barbabietola da zucchero sono Ogm. La situazione va nella stessa direzione in America Latina, in diverse aree dell’Asia, in Australia e progressivamente in Africa. In Europa l’introduzione è ancora limitata, visto che sino ad oggi sono stati autorizzati solo due Ogm: il mais Monsanto e la patata amflora.
Ma il nostro continente non ha ancora una posizione unitaria sugli Ogm, che comunque ci arrivano “dalla finestra”: l’Ue – spiega il rapporto – importa infatti il 70% dei mangimi, in massima parte soia e mais provenienti dagli Stati Uniti. Inoltre sono potenzialmente presenti nelle farine di mais e di soia, che figurano come ingredienti di tantissimi prodotti alimentari. Di fronte a una diffusione così ampia, la contaminazione è inevitabile: «Non si può controllare l’impollinazione incrociata tra le varietà Ogm e le specie della stessa famiglia», precisa Vandana Shiva, che evidenzia come in questi casi, a pagare i danni sia ancora l’agricoltore, e non l’industria che li ha causati.

Rischi per la salute
Per valutare l’impatto degli Ogm sulla salute pubblica, l’Unione Europea, insieme all’OMS e alla FAO hanno adottato il principio della “Sostanziale equivalenza”. Esso si concentra sul prodotto, escludendo il processo di produzione, contemplandone numerosi parametri e caratteristiche, tra cui l’individuazione della molecola modificata, la definizione agronomica della pianta e le valutazioni nutrizionali e tossicologiche. Il suo obiettivo non è quello di stabilire la sicurezza assoluta del nuovo prodotto, ma solo se la sua sicurezza sia paragonabile (equivalente) alla controparte “convenzionale”, in modo che il rischio a esso associato sia lo stesso di quello degli alimenti che consumiamo da millenni.
In buona sostanza, le maggiori organizzazioni mondiali che si occupano di salute e alimentazione hanno stabilito che gli OGM non differiscono dagli alimenti normali per caratteristiche tossicologiche, nutrizionali e organolettiche e che non è per il momento possibile eseguire ulteriori valutazioni. Insomma, siccome non c’è prova che facciano male, si presume che siano innocui. Esisterebbero tuttavia delle ricerche che ricondurrebbero alle proteine contenute negli Ogm l’aumento di manifestazioni allergiche da parte dei soggetti che le ingeriscono.
Il rischio Ogm, infatti, non risiede tanto nel DNA manipolato, perché questo, una volta ingerito, viene denaturato dai succhi gastrici e assorbito nei suoi componenti, che sono gli stessi per tutti gli esseri viventi. Il problema è che non si ha la certezza assoluta che il gene modificato codifichi solo per quella determinata caratteristica che si vuole cambiare. Esso potrebbe anche determinare, a esempio, la sintesi di una determinata proteina, che quindi potrebbe risultare differente rispetto a quella tradizionale e essere identificata come nemica da parte del nostro sistema immunitario (ricordiamo che le allergie si sviluppano quasi sempre nei confronti delle proteine).
In definitiva, quindi, non abbiamo modo di stabilire con certezza se gli Ogm siano realmente nocivi per la salute e l’ambiente: l’unica cosa certa è che i vantaggi per l’agricoltura, specie nelle regioni più povere del pianeta, sono innegabili. Quindi, in attesa di prove concrete e notizie più certe, il dibattito Ogm prosegue.

La superficie mondiale coltivata con piante ottenute grazie all’impiego delle biotecnologie cresce mediamente del 10% all’anno. Nel 2007 aveva superato la quota di 114 milioni di ettari, con un incremento di oltre 12 milioni di ettari rispetto al 2006.

 

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